
La fitta alla coscia sinistra riportò Atlas alla realtà, facendogli sbarrare gli occhi di scatto. Nel guardarsi intorno si ricordò di dove fosse, in un bosco, un agglomerato vegetale immenso fatto di alberi secolari, colline erbose, radure e cespugli. Era passato un anno da quando aveva lasciato la Torre dei Draghi a Dub, 300 giorni secondo il calendario della sua terra natia da quando il suo miglior allievo Mithrandir gli aveva inferto quella ferita alla gamba, uno squarcio nelle carni e nel cuore. L’uomo cercò di allontanare quel ricordo dalla mente scuotendo il capo, alzandosi in piedi fece scivolare la schiena contro il tronco di un albero e usò entrambi i piedi come perno per tornare eretto. I suoi occhi azzurri non smettevano di sondare il circondario ed egli non poteva finire di chiedersi perché si fosse svegliato di soprassalto a quel modo. Era Impossibile che fosse per quella piccola cicatrice sulla coscia, sapeva che quello era un dolore che veniva dalla testa, dai suoi sentimenti, e non dalla pelle ormai rimarginata e dal muscolo rimasto intatto. All’improvviso venne la risposta, Atlas tese le orecchie, arricciò il naso: rumore di zoccoli sulla terra erbosa, odore di uomini che non si lavano da giorni costretti dentro le armature. Il guerriero recuperò la cintola con le due sciabole gemelle legandosela in vita e afferrò l’arco lungo nella sinistra e la faretra nella destra, scivolando silenziosamente dietro il robusto tronco di un platano. Rimase vigile, in attesa, osava respirare solo ogni due o tre secondi e la corazza in cuoio borchiato si gonfiava e sgonfiava sotto le spinte del suo ampio petto. Dopo qualche secondo l’uomo vide sfilare innanzi a sé almeno dodici miliziani: erano fisicamente possenti e galoppavano in groppa a destrieri dalla rara bellezza. Marroni o fulvi, neri o bianchi, i muscoli guizzavano sotto la pelle lucida a testimonianza della potenza di quel palafreni. I loro cavalieri indossavano corazze a scaglie ed elmi piumati che malcelavano folte chiome di colore chiaro, in mano stringevano delle lunghe lance e ai fianchi portavano delle asce dalla lama brunita, solo uno di loro, colui che era in testa, teneva infoderata alla cintola una spada ad una mano e mezza dal pomolo squadrato.
Atlas conosceva da sempre la fama di quei cavalcatori e domatori di equini, erano gli uomini di Rothar, un paese a Nord guidato da generazioni di Re bellicosi ma giusti, a parte alcune ovvie eccezioni. Il bosco in cui si trovava era quello del Vineland e rientrava nel territorio di Rothar, paese al quale il guerriero era diretto. Lasciò che quella dozzina di soldati sfilasse via lungo il sentiero nella foresta, diretta chissà dove, poi controllò che il suo equipaggiamento fosse apposto: infoderò per bene le sciabole nelle guaine di cuoio rigido, si portò l’arco a tracolla e la faretra, contenente dodici frecce a stiletto dal piumaggio viola sulla spalla destra e riprese il cammino, tenendosi distante dal tratturo che violava la vegetazione abitualmente usato da viaggiatori, soldati, mercanti e pastori.
Atlas camminò per un giorno intero, procedere a piedi in mezzo al bosco del Vineland non era certo agevole né rapido, doveva farsi strada attraverso intricate composizioni vegetali e aggirare intere formazioni di alberi. Viaggiò per tutto il giorno, bevendo dalle acque chiare di un ruscello che scendeva verso ovest e cacciando un grosso cinghiale che mangiò per cena.
L’indomani, mancarono all’uomo solo poche miglia prima di uscire dall’ultima fila di alberi del bosco e ritrovarsi su un alto colle che dominava la vallata. Da qui, infondo, verso nord est, Atlas poteva vedere le mura di cinta di Rothar costruite in grezza pietra scura, solida e funzionale come le genti che abitavano la città. In poco meno di due ore a rapido passo il guerriero raggiunse l’entrata del Regno, un solido portale in legno ferrato composto da due ante sbarrate. Non ci volle molto alle sentinelle per avvistarlo dall’alto dei camminamenti. Uno di loro, vestito di un corpetto di cuoio bollito e armato di arco fece sentire la sua voce:
- Buongiorno, è obbligo presentarsi e fornire una valida motivazione prima di avere il permesso per entrare a Rothar! – tuonò, con un tono duro e un accento affettato da nordico.
- Sono Atlas Van Tassel, vengo da Dub, a Sud, e sono qui per offrire i miei servigi come mercenario – rispose subito con voce calma ma ferma.
La sentinella sparì dietro i merli, probabilmente per confabulare con qualche altra guardia circa la possibilità di farlo entrare. Atlas era ben lungi dallo spazientirsi, anche se l’uomo si fece rivedere solo dopo qualche minuto, e con un secco – Avete il permesso di entrare! – diede l’ordine di aprire le porte. Quelle due ante, alte circa quattro metri e larghe poco di meno, si schiusero con un fragore assordante innanzi al guerriero che, dopo essersi esibito in un frettoloso inchino verso le sentinelle, si affrettò a procedere all’interno delle mura guardandosi attorno. Rothar era proprio come lui l’aveva immaginata, strada sterrata, case rustiche in pietra, paglia e legno, botteghe artigianali, taverne. Sì! Una taverna, proprio quello che cercava. Atlas vi entrò, fu subito colpito dall’odore del vino e della birra, del sudore e del tabacco da pipa che permeava la stanza non di certo grande, germita di gente e di tavolacci logori come le sedie. Infondo c’era un lungo bancone di legno e, dietro questo, un oste zoppo e smilzo, dall’aria stanca. Il guerriero si rifocillò, bevendo del vino e mangiando del pollo freddo data la calura della stagione estiva, dopodichè uscì incamminandosi verso il palazzo del Re. La costruzione era in legno e pietra, rettangolare, piena di decorazioni simili a tribali raffiguranti motivi di guerra, di caccia a cavallo e arborei. Le guardie all’ingresso erano evidentemente già state avvisate del suo arrivo e fu fatto entrare dopo una breve presentazione. Un uomo lo scortò lungo un corridoio costeggiato da stanze, le pareti erano ricche di arazzi in stoffa pregiata.
Quando entrà nell’ampia sala del trono, il guerriero vide un lungo tavolo rettangolare e, dopo due o tre gradini, su un rialzo, il trono in legno massiccio su cui era seduto il sovrano di Rothar, i due poterono scandagliarsi vicendevolmente: Atlas aveva circa trentatrè anni e si ergeva per poco più di un metro e ottanta. Portava lunghi capelli neri e un folto pizzetto brizzolato comprensivo di baffi. La schiena era eretta, il fisico tonico e avvezzo alla battaglia. Oltre alla corazza borchiata e alle armi, l’uomo indossava dei calzoni in stoffa leggera marrone infilati in un paio di stivali di cuoio e dei guanti a mezzedita. I suoi occhi erano del colore del ghiaccio, incastonati in un volto maturo e segnato dalla vita, penetranti come pochi altri. Gunnar Ingvarsson, il Re di Rothar, dimostrava circa cinquant’anni ma il vigore era ben lungi dallo sparire dal suo corpo. L’altezza era di certo elevata e le spalle erano larghe, su queste poggiava un collo da toro e un volto segnato da rughe e cicatrici. I capelli erano lunghi, tra il biondo e il grigio e gli occhi azzurri, leggermente acquosi. Vestiva con una semplice tunica rossa che arrivava fino a metà coscia, stretta in vita da una cintola di cuoio. I calzoni erano in stoffa nera e gli stivali in morbida pelle. Il Sovrano si rivolse così al visitatore
- Ben giunto sir Atlas, la voce sul vostro arrivo si è sparsa immediatamente nel mio piccolo borgo e noi saremo lieti di accogliervi come mercenario tra le nostre fila, vista la guerra imminente – la voce era baritonale e rauca, molto di più di quella di Atlas quando rispose
- Kalwar Re – utilizzò il saluto della sua vecchia gilda, chinando il capo – ho saputo che il regno vicino di Talamar intende muovervi guerra per una contesa territoriale –
- E’ vero, purtroppo sono almeno tre anni che Talamar non accetta la nostra supremazia sul Vineland. Tale regione comprende colline, campi da coltivare e boschi. Tutto ciò che serve a noi gente del nord per sopravvivere. Gli abbiamo imposto delle giuste tasse ma non hanno voluto sentire ragioni. Arriveranno, mi dicono i miei esploratori, tra qualche giorno –
- Ho avuto modo di vedere i vostri uomini, proprio nel bosco, mio signore. Sono d’accordo con voi e trovo giusta la vostra opposizione in armi. Vi aiuterò per quanto potrò, a patto ovviamente di ricevere una buona ricompensa – aggiunse Atlas, sorridendo.
- Suvvia, c’è bisogno di dirlo? Non ci aspettavamo certo che voi rischiaste la vita gratuitamente per della gente che non è la vostra! Avrete, a battaglia conclusa, duecento monete d’oro e, se vorrete, un cavallo. E’ tutto quello che posso offrirvi. –
- Sarà più che sufficiente. I vostri destrieri valgono molto più che qualche pezzo di metallo –
Fu il Re a sorridere, questa volta.
- Già! Ma dovrete superare una prova, non possiamo prendere un inetto nel nostro esercito, ne andrebbe della nostra sicurezza –
- Capisco bene e non mi aspettavo certo di essere assunto senza dare dimostrazione delle mie capacità –
- Cominceremo subito allora, se non siete troppo stanco –
- Sono pronto – Rispose Atlas, facendo due passi indietro.
In quel momento, la porta posta subito alle spalle del trono si aprì e ne emerse un vero e proprio energumeno. Era alto almeno dieci centimetri più del mercenario e aveva spalle decisamente possenti, petto ampio, ventre pasciuto, lunghi capelli rossicci e mossi rasati ai lati e una folta barba ramata. Indossava una cotta di maglia e stringeva nella destra un’ascia con lama a becco lunga almeno quanto lui. Subito dopo essere entrato l’uomo parlò, rude e diretto:
- Sono Garm figlio di Skarr, Maestro D’armi del palazzo. Come è d’usanza dalle nostre parti ci affronteremo in un duello al primo sangue. Se verrete ritenuto degno, potrete servire in questa guerra come mercenario. Altrimenti vi verranno prestate le cure del caso e sarete costretto a lasciare la città –
Atlas non aveva mai perso un duello negli ultimi dieci anni, la sua abilità di spadaccino era diventata sopraffina ma quel guerriero immenso gli dava l’impressione di essere un vero osso duro. L’uomo si tolse l’arco e la faretra dalla tracolla, sistemò la corazza ed estrasse le due sciabole, avanzando e fermandosi a circa quattro metri da Garm. Subito dopo si mise in guardia, il braccio destro proteso in posta lunga con la spada del medesimo lato diretta in linea d’aria al petto dell’avversario, gomito sinistro flesso e appoggiato al fianco, punta ricurva della sciabola verso l’alto con l’intera lama che andava quindi a proteggere il lato mancino del corpo. Gamba destra avanti, sinistra indietro, ginocchia flesse. Il maestro d’armi non si fece attendere e balzò in avanti sferrando un temibile fendente, dall’alto verso il basso nel tentativo di colpire la spalla destra di Atlas che in un attimo scartò all’indietro, agilmente, facendolo andare a vuoto. Il guerriero abbassò la sciabola destra tentando di andare a mozzare l’asta dell’ascia ma Garm fu rapido a risollevare la sua arma parando il colpo e tentando un nuovo attacco, questa volta dal basso verso l’alto mirato al ventre di Atlas che schivò ancora, uscendo lateralmente a sinistra dalla traiettoria della scure. In quel momento il mercenario scattò in avanti per ridurre le distanze e poter colpire ma il maestro d’armi agì in modo intelligente indietreggiando e portando a compimento un altro fendente di ascia che Atlas fu costretto a parare con entrambe le sciabole. I fili delle sottili armi colpirono l’asta di legno della lunga scure scheggiandola, ma la lama della spada sinistra, con un sonoro “tlack”, uscì dall’inserto nell’elsa e cadde impattando al suolo, rimbalzandovi contro due o tre volte. Atlas era riuscito a non sbilanciarsi e a non farsi colpire bloccando quel temibile fendente ma ora si ritrovava con una sola spada e con l’avversario sempre più agguerrito, tuttavia non ci sarebbe mai stato un momento migliore per chiudere lo scontro. Il mercenario scattò verso Garm tenendo la sciabola destra, l’unica rimastagli, sotto l’asta dell’ascia in modo da tenerla incastrata contro l’elsa e raggiunse il suo nemico mentre questi cercava di indietreggiare. Atlas si accovacciò fulmineo e sferrò un colpo di forza controllata, diagonale da destra verso sinistra andando a squarciare lo stivale destro di Garm all’altezza della tibia, aprendogli una piccola ferita nello strato superficiale dell’epidermide e dando così termine al duello.
Dopo gli applausi di Gunnar e dei presenti, e i complimenti amichevoli di uno zoppicante Garm, Atlas fu ufficialmente assunto come mercenario e gli fu data una stanza alla locanda. Il più era fatto, l’uomo ora avrebbe solo dovuto attendere la guerra per dimostrarsi ancora una volta degno del Dio Ares, degno di definirsi guerriero, avrebbe dovuto solo aspettare l’adrenalina dello scontro e il sangue, per potersi sentire di nuovo vivo dopo tanto tempo.
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